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Conosciamo l’Italia che vale
Ardea, fra tradizione e arte

   


Ancora innamorato dell’estate, questo autunno tiepido mi fa ricordare alcuni viaggi che nella bella stagione e non solo, mi hanno portato, come sempre in giro qua e là. Ho ritrovato foto e note che di solito appunto per memorizzare e documentare le mie esperienze da girovaga  cronica quale sono, trovando in esse il senso sempre nuovo e stimolante della vita.

Tra le tante, mi piace raccontare un viaggio in Lazio che non conduce obbligatoriamente soltanto a Roma, città che adoro, ma in quei territori “minori” della sua provincia che raccontano altrettanto intensamente, storie di persone, di idee, bei luoghi e cultura, popolare e non. Mi sono trovata per una curiosità artistica e la voglia incontenibile di trascorrere con i cugini del cuore un po’ di giorni, in quel di Ardea, cittadina di certe origini antiche  dalle  più svariate versioni che affondano nella leggenda e mitologia, con Enea in testa che, secondo Ovidio, sbarcato sulle coste del Lazio alla nascita di Roma, bruciò la città fino ad allora al comando del re rutulo Turno e se ne impossessò. Il nome deriverebbe dal volo di un airone (ardea cinerea) che si levò dalle ceneri della città.

 

« Turno muore. Ardea cade con lui, città fiorente finché visse il suo re. Morto Turno, il fuoco dei Troiani la invade e le sue torri brucia e le dorate travi. Ma, poi che tutto crollò disfatto ed arso, dal mezzo delle macerie un uccello, visto allora per la prima volta, si alza in volo improvvisamente e battendo le ali, si scuote di dosso la cenere. Il suo grido, le sue ali di color cenere, la sua magrezza, tutto ricorda la città distrutta dai nemici. Ed infatti, d'Ardea il nome ancor gli resta. Con le penne del suo uccello Ardea piange la sua sorte »

 

(Ovidio, Metamorfosi, XV.)

Questa  cittadina di circa 40,000 abitanti, costruita in corrispondenza di una rupe tufacea dove sono presenti grotte che testimoniano una remota antropizzazione del luogo, è  adiacente al comune di Pomezia, col quale intrattiene scambi culturali e iniziative finalizzate all’aggregazione. Una fra tutte mi ha piacevolmente coinvolta in quanto pur nella sua semplicità, l’argomento trattato è risultato interessante dal punto di vista storico. Organizzata dall’Associazione Coloni di Pomezia, fondata nel 1989 su principi e valori che fanno capo alla famiglia,  la Festa del grano, ha voluto raccontare ancora una volta e dal 1990, la vita contadina legata alla coltivazione di questo alimento fondamentale, fonte un tempo di nutrimento e di economia, attraverso una bellissima mostra di antiche fotografie, una di pittura in esposizione ed estemporanea di cui responsabile è Elena Claudiani Risorti, una di poesia.

 La bellezza di questi eventi sta nell’assoluta spensieratezza e nel semplice motivo dello stare insieme per mantenere vive e magari ancora presenti le tradizioni di un tempo e, di  quelle perdute, almeno il ricordo. Per tutta mia risposta a questo simpatico e dolce invito, ho partecipato, memore della mia passione mai spenta per la pittura, alla gara estemporanea, integrandomi a questo gruppo numerosissimo che ha visto diversi artisti cimentarsi in varie forme espressive, non solo pittura. E su una bella aia dove il ricordo delle coltivazioni del grano è ancora vivo, per quanto allergica a questo prezioso cereale che evito accuratamente e a malincuore di mangiare, la sua memoria non mi ha affatto disturbato e mi sono anche concessa un bel tango con Giuseppe Perrone poeta e uomo di grande cultura, nonché cugino tra i prediletti. Dunque, la visita agli stand animati da creazioni artistiche originali e preziose come l’intaglio del legno, il mosaico, la scultura, non prima però di avere riposto pennelli e colori, soddisfatta del mio piccolo e semplice quadro di ispirazione impressionista, siamo en plein air, ritratto di un’antica trebbia in bella mostra davanti a me. E anche io ricevo, assieme ai partecipanti e alla mia troppo simpatica cugina Domenica, bravissima pittrice, la medaglia e gli onori, riservati agli artisti e creativi, gente sui generis, speciale, ve lo assicuro.

E poi il bel pranzo finale di romana impronta, robusta, genuina e saporitissima. Ma, ma..se la cultura gastronomica di questo territorio mi ha conquistata, (è di qualche giorno la goduria di carciofi alla romana e quant’altro con il bianco dei castelli, in una trattoria ai Fori imperiali), è ancor più vero che l’archeologia, l’arte, la storia di questi magici luoghi, mi hanno proprio rapita. Una delle più belle mostre che abbiano mai riscosso il mio apprezzamento, è quella dedicata al grande scultore Giacomo Manzù, scomparso nel 1991, di cui ho visitato il museo a lui dedicato ad Ardea. Scultore, medaglista, grafico e disegnatore, Manzù, vero cognome Manzoni, povero di nascita, sviluppò il suo talento prima a Parigi e poi in Italia, dove realizzò meravigliose opere scultoree in bronzo, espressione massima della sua sensibilità e abilità artistica. Così diceva agli studenti dell’Accademia estiva di Salisburgo: “L’opera d’arte scaturisce unicamente e solo da un moto d’amore… La condizione essenziale per la vostra opera è che dal vostro intimo scaturisca un fuoco che investa la materia che non può restare semplicemente tale, perché sotto le vostre mani dovrà sublimarsi in spirito. La concezione plastica non deve essere ispirata da pregiudizi formali, ma soltanto dall’amore”.

Cosa poter aggiungere dopo tanta nobile visione, se non che Ardea è anche chiese, memorie preistoriche e medievali, e un bel motivo per ritornarci.

 Vittoria Camobreco
 

   
   

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