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Quer pasticciaccio brutto di Avetrana
di Maurizio Paparazzo

   


Carlo Emilio Gadda forse ne avrebbe ricavato un romanzo giallo. E’ abbastanza probabile che qualcuno, quanto prima, ne trarrà un film. Di sicuro è che, sui fatti di Avetrana, abbiamo assistito in questi giorni all’imporsi di un nuovo genere televisivo che nasce come cronaca in diretta e che si trasforma in “fiction in diretta”. Anche questo un bel pasticcio, o se credete, una contaminazione di generi. Ricordiamo almeno due precedenti cinematografici illustri che ne richiamano o ne anticipano il format: il film “Rashomon”, di Akira Kurosawa, dove “mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra allontanarsi” (Emanuele Sacchi); e il filmThe Truman Show” di Peter Weir che “si ispira alla moda di raccontare la vita in televisione attraverso i reality shows”. Ma torniamo a “quer pasticciaccio brutto” di Avetrana. E’ incontestabile che il dato di partenza sia un fatto di cronaca. Noi ne stiamo seguendo le varie fasi in diretta, puntata per puntata, grazie ai telegiornali e, soprattutto, ai diversi programmi o contenitori attraverso cui viene trasmesso: da Chi l’ha visto?, a Porta a porta, da La vita in diretta, a Quarto grado, a L’Arena, ecc. Quasi a reti unificate. Mai però prima d’ora la televisione ci aveva introdotto così tanto nella sfera privata e nella psicologia dei singoli protagonisti. Siamo andati oltre la cronaca, oltre il fatto in sé, oltrepassando il confine dell’informazione e penetrando nel mondo intimo e familiare della gente. Sappiamo ormai quasi tutto di loro (persino chi lava i piatti la mattina!) di persone che fino a ieri erano perfetti sconosciuti, e abbiamo scoperto che molti di loro sanno fingere, recitare, mentire, già, come accade nella vita e nelle fiction. Badate bene, nessuno di loro sembra però avere il minimo timore di stare davanti a una, due, tre telecamere e davanti a milioni di spettatori! I protagonisti della vicenda, i cui volti ormai non dimenticheremo più, “appaiono” o “sono” in gran parte tutti “toccanti” e “veri” quando piangono o si arrabbiano, o raccontano o sono colti nella disperazione. E la sequenzialità degli “episodi” sembra rispondere ai principi della migliore drammaturgia: i colpi di scena si susseguono a catena e vengono calati come assi al punto giusto; così come le sorprese, i sospetti su tutti i protagonisti, le loro dichiarazioni, le ritrattazioni, i depistaggi, le intercettazioni, le svolte. Insomma, una fiction in diretta in piena regola. Ciascuno di noi spettatori è invece chiamato nel ruolo del detective in poltrona: come in “Sei problemi per don Isidro Parodi” di Borges, tiriamo le nostre conclusioni dopo aver ascoltato i pareri di: sessuologi, psicologi, criminologi, investigatori, esperti delle espressioni facciali e fisiche, avvocati, critici, testimoni della strada, di altri “attori” della fiction, insomma, e dopo aver acquisito i particolari taciuti e che, quando vengono detti, sembra che illuminino per un istante la vicenda. Ma subito dopo perdono la loro efficacia e ci fanno ricadere nel caos, nel tormentone, rinviando alla puntata successiva. Siamo stati proiettati nelle locations ormai diventate a noi familiari e, purtroppo, meta di cinici pellegrinaggi: quella strada, quel garage, quella facciata di casa con i cancelli marroni, quella campagna, il casolare, il pozzo, il palazzo di giustizia, e poi il cimitero di Amburgo, Milano.

Genere televisivo mediatico e a puntate, che parte da un atroce fatto di cronaca e che assume i connotati della fiction, girato con il sistema dei reportage giornalistici, basato su interviste, su collegamenti in studio, su contributi di servizi esterni, con protagonisti fino a ieri sconosciuti, spettinati e senza trucco, dimessi e vestiti di abiti propri, con una storia colpevole, dolorosa e drammatica nell’anima, con ambientazioni dal vero e con niente di ricostruito scenograficamente. E tutto sulla morte di una ragazzina e sulla tragedia di due famiglie, su cui siamo stati capaci di inventarci un genere.

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