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Il gioco: un business in crescita, ma con quali rischi?

C’è un’industria che produce risultati in controtendenza rispetto a tutte le altre. È l’industria del gioco. Si tratta di una tra le prime quattro industrie del Paese, con un fatturato imponente e crescente e con ricadute economiche e sociali non trascurabili. Alcuni dati possono aiutarci a comprendere la dimensione economica dell’industria dei giochi. Nel 2008, la raccolta complessiva dei giochi gestiti dallo Stato è stata di 47,5 miliardi di euro. Si tratta di cifra considerevole, pari, all’incirca al 3% del prodotto interno lordo nazionale. Un semplice calcolo mostra che ciascun italiano (inclusi neonati e bambini) ha speso mediamente 797 euro all’anno in giochi, lotterie e scommesse varie.   

Nonostante la crisi economica e il calo dei consumi, il fenomeno del gioco è in netta crescita. La raccolta del 2008 è stata superiore del 12,7% rispetto a quella dell’anno prima. I primi dati per l’anno in corso mostrano un ulteriore aumento. Nei primi cinque mesi del 2009, sono stati giocati oltre 22 miliardi di euro, cioè 145 milioni al giorno. Se la tendenza si mantenesse per i prossimi mesi, la raccolta complessiva si attesterebbe, dunque, a 53 miliardi di euro, quasi il 12% in più rispetto all’anno scorso. Quale altra industria cresce allo stesso ritmo?

Naturalmente, le casse dello Stato ne traggono un beneficio, che ripaga ampiamente gli sforzi fatti per promuovere i giochi esistenti e la creatività dimostrata per crearne di nuovi.  L’anno scorso, le entrate erariali per i giochi gestiti dal Monopolio di stato sono state pari a 7,7 miliardi. Anche in tal caso, con un significativo aumento rispetto all’anno precedente.


Raccolta complessiva dei giochi pubblici 2003-08
In milioni di euro. Fonte: Dati Amministrazione Autonoma Monopoli di Stato

Sia chiaro, in tutti i Paesi lo Stato ha il monopolio sui giochi, applicandovi delle imposte. La prima ragione è che il gioco non ha un’utilità sociale, anzi produce effetti sociali negativi. È dunque perfettamente razionale che il gioco sia gestito dallo Stato e che sia tassato, proprio per disincentivarlo. La seconda ragione, è che il monopolio pubblico sottrae (in larga misura) il gioco dal controllo della criminalità organizzata. Nonostante ciò, è lecito chiedersi fino a che punto sia etico promuovere e incentivare il gioco, spingendo milioni di famiglie a spendere cifre ingenti per tentare la sorte. Le conseguenze che ne derivano sono note, sebbene poco analizzate dagli studiosi. È chiaro, infatti, che il gioco è una rilevante forma di finanziamento del settore pubblico, soprattutto nelle fasi in cui è assai difficile reperire entrate attraverso altre fonti. Tuttavia, la tassa da gioco colpisce soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Per ragioni culturali, o perchè mossi dal desiderio di poter imprimere una svolta alla propria vita, sono spesso le fasce socialmente ed economicamente più deboli a tentare la sorte attraverso i giochi. Si tratta, dunque, di una tassa occulta e con effetti regressivi.

Esistono, poi, effetti diversi. Molti giochi, come quelli online o agli apparecchi automatici, che sono in netto aumento, tendono a favorire le giocate compulsive, che creano una sorta di dipendenza dal gioco stesso. Non è, purtroppo, infrequente che giocatori incalliti si rivolgano agli usurai per poter ottenere prestiti che gli consentano di continuare a giocare, nella speranza di ottenere una vincita sensazionale che, ovviamente, ha probabilità irrisorie di avverarsi.

Qual è, poi, l’effetto complessivo di “spiazzamento”che la spesa per giochi ha sui consumi delle famiglie? Qual è, cioè, la “ricchezza netta” che il gioco produce, considerato lo spostamento della spesa da altre forme di consumo?  È evidente che l’incentivazione al gioco da parte dello Stato, spinto dall’esigenza di procurarsi entrate crescenti, si scontra con problemi economici, sociali ed etici rilevanti. È davvero opportuno o etico che le finanze pubbliche si basino, in buona misura, sul sottoprodotto di un’attività da casinò, senza considerare i rischi sociali che ne derivano?

Vittorio Daniele
Docente di Economia politica, Università Magna Graecia di Catanzaro

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