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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò

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INVITO PER IL 17 MARZO: CELEBRAZIONI E CRITICHE

  
  Il 17 marzo, a centocinquant’anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, anche Soverato farà qualcosa (ore 21, a teatro): secondo alcuni, per celebrare, secondo il mio testo che vedrete, per ricordare e riflettere senza retorica, con legittimo, anzi doveroso spirito critico. Si celebra, infatti, ciò su cui siamo tutti d’accordo, che pare bello a tutti come il Natale, in cui i credenti annunziano Cristo, ma gli atei almeno sono, per quanto non si sappia perché, più buoni. E invece non siamo affatto d’accordo su come andarono le cose nel 1861, anzi, non lo erano gli italiani di allora, e perciò lo storico serio non può far finta che invece erano tutti, ma proprio tutti estasiati di fronte a Garibaldi e felici e vogliosi di diventare sudditi di Vittorio Emanuele di Savoia. E siccome io, nel mio piccolo, sono uno storico serio e non casco nella trappola della reinvenzione del passato; e, soprattutto, non parlo del 1861 in vista della prossima campagna elettorale né comunale né altra, allora so, e vi comunico, che alcuni italiani combatterono per Garibaldi e Vittorio, e altri combatterono invece per Francesco II di Borbone; senza scordare quelli che, dalle navi della flotta austro veneta del 1866, affondarono a Lissa quelle italiane pessimamente comandate da un ammiraglio piemontese incapace e da napoletani che, dopo aver tradito Francesco, stavano tradendo anche Vittorio. “Al mondo, come scrive l’Amari, non vi fu mai penuria di anime di fango”. 

Brutte verità, amici, ma l’Italia ha bisogno di verità, non di favole, camomilla e piogge di retorica. I piemontesi, poi italiani, lamentarono più morti nella guerra del 1861-8 contro gli insorti meridionali ingiuriati briganti, che nelle tre guerre d’indipendenza messe assieme. A loro volta, uccisero molti guerriglieri, uomini e donne, e massacrarono popolazioni disarmate: a Casalduni, a Pontelandolfo vennero fucilati a centinaia, e anche bambini. Brutte verità ma verità. Vi lascio solo immaginare cosa capitava a un piemontese finito in mano ai cosiddetti briganti! Altra verità.

 I briganti non erano spinti dalla fame, e nemmeno da presunte ragioni economiche. Se fosse vero quel che dicono i Villari e i Gramsci, che il brigantaggio scoppiò per protesta sociale, giacché solo scoppiò dopo il 1861 e non prima, avrebbero dovuto ammettere che le cose andavano meglio prima che dopo Garibaldi! Ma nemmeno funziona: come avrebbero fatto decine di migliaia di persone ad accorgersi in tre mesi che il Meridione stava entrando in crisi economica? Insomma, non c’è logica. Ma fu un evento politico di guerra, ahimè tardiva e disorganica, contro l’invasore. 

Il Regno delle Due Sicilie era, rispetto a quei tempi, e bisogna sempre storicizzare, molto più industrializzato e popoloso e ricco di quanto non sia ora il Sud rispetto al Nord e all’Europa. Verità. Due terzi del tesoro del Regno d’Italia unificato saranno presi dalle Due Sicilie. Verità. Ma quei soldi, dov’erano? Sotto il mattone, non spesi, come fa la Regione Calabria dal 1970, e speriamo, sotto Scopelliti, non lo faccia più. Due verità spiacevoli, una del 1861, una del 2011. Ma volete la verità, o le favole?

 Garibaldi sbarcò con la protezione di due navi inglesi. Vero. Ma da Quarto a Marsala c’era tanto mare aperto, per affondare due bagnarole prima che arrivassero in Sicilia… e invece niente, la solita meridionale inerzia del “poi vediamo”. E anche questo è vero. Dallo sbarco in Calabria a Napoli non sparò un colpo, e nessuno gli sparò contro. Vero. Ma al Volturno l’esercito borbonico stava per annientarlo, se non fosse stato comandato da generali paciocconi e del tutto privi di baffi. Un giornale francese pubblicò questa vignetta: un soldato meridionale con la testa di leone, un ufficiale con la testa d’asino, un generale senza testa. Vero. Oggi abbiamo una classe dirigente e culturale che, all’80 e più %, non esiste e non conta niente; il ceto dirigenziale è fatto di mediocri; il popolo, magari leone non è, però è meglio degli altri due. E anche questo è vero. Vittorio Emanuele e Garibaldi erano due donnaioli alla grande, e Peppino anche ateo e noto bestemmiatore; Ferdinando II e Francesco II furono cattolici devoti e mariti esemplari e vissero una vita parca, onesta e casalinga; Pio IX è stato proclamato beato. Verissimo. Però quei due hanno vinto e gli altri tre perso, e ciò mi induce a considerazioni morali, anzi, immorali, che farebbero la gioia di Nietzsche; però, ora che ci penso, anche del nostro Vico. E questo è malinconicamente vero. 

La Camera dei deputati del 1861 venne eletta – il Senato no, era di nomina regia – solo da quanti pagavano un’imposta di 40 lire. Erano in tutta Italia 400.000; votarono la metà, perché i cattolici si astennero. Duecentomila persone rappresentarono ventidue milioni di italiani: alla faccia della democrazia. E anche questo è vero. Un corollario: se solo 400.000 pagavano un’imposta tutto sommato non altissima e gli altri non ce la facevano, si vede che l’Italia tutta se la passava malissimo a soldi, altro che inventarsi progressi torinesi e magnificenze napoletane! E anche questo è vero.

 Cosa dobbiamo concludere, mentre assisteremo, la sera del 17 marzo, allo spettacolo un po’ storico e un po’ allegro cui siete invitati? Che l’Italia non l’hanno inventata, come pensa il Croce, nel 1861: c’era almeno dai tempi del re Italo. L’unità politica prima o poi si doveva fare, e tutti, tranne Mazzini da un esilio non scomodo a Londra, la volevano confederale o federale. Venne messa assieme prima da Napoleone III per i suoi interessi, poi dagli inglesi contro Napoleone III; Cavour, districandosi tra i due contendenti, la unificò a mano armata; l’Europa ritenne utile il fatto compiuto. Lombardia, Emilia, Romagna, Toscana si lasciarono annettere al Piemonte; il Regno delle Due Sicilie combatté con l’esercito al Volturno, al Garigliano, a Gaeta, Messina, Civitella; e con gli insorti altri dieci anni. 

Il Regno meridionale non era uno “statarello” come dicono i libri di testo: vantava, contando anche il ducato di Benevento, tredici secoli di vita, il più antico d’Europa; in senso stretto, otto secoli; era esteso più di tre volte un Belgio o un’Olanda; contava due quinti della popolazione italiana; pur con alcune arretratezze, era in piena espansione economica. Perché cadde? Per lo stesso motivo per cui oggi il Mezzogiorno non conta nulla in Italia e in Europa: debolezza politica, classe dirigente scelta con il criterio del peggio è meglio è. E la cultura? Al solito: o piagnoni o ripetitori a memoria di libri scritti altrove e con mentalità, dopo tre secoli, illuminista come se non ci fossero stati romanticismo, idealismo, positivismo, decadentismo, futurismo, fascismo e antifascismo. Macché, il nostro dotto ha ancora in faccia il più ebete sorriso della ragione come i bambini bravi cocchi di mamma e i mentecatti di ogni età anagrafica.

 Ecco perché vogliamo ricordare e criticare il 1861 e non celebrarlo. E vediamo se qualcuno, anche su queste colonne, interviene: s’intende, sul 1861, non sul fatto, per altro evidente, che io sono un po’ sovrappeso o qualche altra calunnia generica. Perciò intervenga chi sa di storia, non Pennisi, ML e le professoresse danesi fasulle. E, intervenendo, firmate, per favore!

 Ulderico Nisticò

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