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Rubrica di Società e Cultura di Ulderico Nisticò

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I SANTI A GALILEA

  


 Caro Giuseppe che dalla lontana California mi preghi di non replicare agli sproloqui, questa volta hai ragione, e l’ultimo pezzo sbavante livida invidia e meschina frustrazione me ne ha convinto. Non mi resta che attendere quando colui scriverà un testo, troverà un teatro, un regista, attori, coro, danze, pubblico, e leggerà di sé sui giornali. Ma parliamo di cose belle e serie.

 La tradizione di “scendere i santi a Galilea” offre occasione di riflessioni storiografiche e antropologiche rilevanti per la memoria della nostra comunità cittadina. Essa è antica ab immemorabili, e ci riporta a quando il borgo di Soverato, oggi i ruderi del “Vecchio”, era uno dei kastellia di origine bizantina, paesi fortezze di contadini soldati per difendere la costa dai Saraceni; un sistema che resse da quando Niceforo Foca liberò la Calabria nell’887-8 a quando venne assorbito nell’unità del Meridione sotto i re normanni; per tornare a funzionare ottimamente contro la minaccia turca dei secoli XVI e XVII. L’argomento è ben noto alla storiografia calabrese; per quanto riguarda lo Ionio, leggete il mio Ascendant ad montes. La difesa passiva e attiva della costa ionica in età bizantina, in “Vivarium Scyllacense”.

 Ma questi “castelli” collinari dello Ionio derivavano tutti in qualche modo da insediamenti costieri, greci e poi romani; nel nostro Basso Ionio, da Scillezio – Scolacio e da centri minori quali Poliporto, i cui resti appaiono durante le grandi mareggiate invernali. Vi basti il riassunto: chi vuol saperne di più, c’è una ricca bibliografia, culminante con il volume Soverato della Rubbettino, per l’antichità classica e medioevale il capitolo I, opera mia e di mia figlia Elisa per la parte archeologica. La memoria di questo trasferimento rimase tuttavia attraverso le generazioni, e ne derivò l’esigenza di un ritorno di valore religioso e simbolico, per cui i santi almeno una volta l’anno dovessero rivedere i luoghi dove erano stati venerati un tempo. La nostra processione avviene subito dopo Pasqua, donde il nome della festa e, in seguito, della fiera: Cristo risorto dice ai discepoli “Vi precederò in Galilea”. I santi sono le statue che, la mattina di Pasqua, hanno rappresentato “a Cumprunta”: san Giovanni Evangelista, Gesù risorto e la Madonna Addolorata che poi appare azzurra e lieta. Fino a quel momento la chiesa è in lutto.

 Del resto la marina non era stata del tutto abbandonata. Almeno dalla metà del Seicento, come ha provato Mimì Caminiti nel suo Soverato nei secoli esisteva un insediamento, il cui nome, molto significativo, fu Santa Maria di Poliporto; e corrisponde, grosso modo, a quanto è intorno alla chiesetta oggi del Rosario e fino alla Torre; e al castello, qui da intendere in senso militare, le cui forme si intravedono di fronte a piazza Don Gnolfo. Ne diremo di più in altra occasione. La denominazione di Santa Maria di Poliporto restò ufficiale fin quando, trasferita la sede municipale nel 1881 (leggasi il capitolo Ottocento, di Tonino Fiorita, nello stesso Soverato della Rubbettino), si parlò di Soverato Marina e Soverato Superiore. Infatti, il sisma del 1783 aveva comportato il trasferimento del borgo sulla collina di fronte, dove sorgeva subito una chiesa, sede parrocchiale dell’intera Soverato fino al 1941; e da cui dipendeva la chiesetta, inizialmente dell’Annunciata. Leggasi La fede tenace di U. Nisticò, T. Fiorita e don I. Sammarro.

 Non sappiamo se anche da Soverato “Vecchio” i santi scendevano in marina, e possiamo solo ritenere probabile, se la torre, di cui tra poco diremo, è più antica del 1783. Certo è che da quando sorse Soverato Superiore, la tradizione della processione si è sempre rispettata il martedì dopo Pasqua; ma l’antico percorso era attraverso Mortara e Santicelli, con una sosta alla Torre. Questa è denominata, forse per questa ragione, di Galilea, e così la chiamano il Valenti, il Faglia e lo stesso Caminiti; di Carlo V, è un’invenzione di dotti, e, come quasi tutte del genere, campata in aria come lo sbarco di Ulisse e relativo reimbarco a Catanzaro Lido. È una “cavallara”, di quelle erette in tutto il Reame da quando, nel 1480, i turchi saccheggiarono Otranto con strage di cristiani, venendo respinti poi da Alfonso d’Aragona e Nicolò Picardo fratello di latte di san Francesco di Paola: i “Cicco e Cola” del detto popolare. Vi stava un uomo a cavallo per avvertire i contadini; la comandava un caporale: ognuno riconosce diffusi cognomi. Le torri erano di proprietà del Regno; le gestivano però i comuni a loro spese, e Soverato per tale scopo era consorziata con Argusto.

 La processione sostava presso la torre Galilea, scendendo poi fino alla chiesetta. Oggi il percorso segue la rotabile, ma non si discosta molto dall’antico. E uguale è lo scopo, quello di riannodare il legame sacro e tradizionale tra la collina e il mare.

 Ma poiché bisogna dire sempre tutta la verità, non possiamo tacere una tradizione, che quando qualche circostanza o cattivo tempo impediscono la discesa dei santi, questo è cattivo auspicio. Speriamo, quest’anno, di no.

 Ulderico Nisticò

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