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Capodanno, il falò e le origini della strenna

«Fhàmmi la strina chi mi soli fhara, / fhàmmi la strina ch’è di Capodannu». È ormai raro, oggigiorno, sentire pronunciare in Calabria questa antica filastrocca. Tuttavia, in alcuni paesi dell’entroterra reggino o catanzarese, «’a strina» (cioè, non la moderna  e consumistica abitudine di scambiarsi i regali a Natale ma l’antichissima tradizione di offrire doni ai ragazzi al seguito della processione di Gesù Bambino a Capodanno) riesce ancora a stento a sopravvivere. Un tempo questi bambini venivano colmati di ciò che allora rappresentava un vero e proprio «ben di Dio». Doni che consistevano in beni di natura: fichi secchi, noci, castagne «’mpurnàti», lupini, mandarini, «murinìedhi», nocciole, ecc. Era una strenna davvero povera ma che appagava i bambini di allora. I quali, per l’occasione, cantavano appunto l’allegra filastrocca della «strina», accompagnandosi con chitarre battenti e altri strumenti tradizionali.

La consuetudine di scambiarsi doni a Capodanno, peraltro, ha origini molto remote. Dobbiamo risalire addirittura ai Saturnali romani che si svolgevano nell’ultimo mese dell’anno e che si celebravano appunto in onore del dio Saturno.

Durante questi riti, la distribuzione dei doni avveniva alla stregua di una moderna lotteria. Ognuno era corredato da una scheda descrittiva. Si dice che Augusto possedesse un particolare spirito umoristico nell’annunciare certi doni. La sua «bella barbiera», per esempio, non era una bella fanciulla abile nell’arte della depilazione, ma una pinza strappapeli. E così via. Nel corso dei secoli questa usanza, comunque, si è poi perpetuata nelle forme più disparate.

Un altra tradizione ricca di significato, legata al Capodanno, è quella dei falò. In Calabria, fin dalla notte dei tempi, è consuetudine popolare accendere nella notte di San Silvestro dei falò intorno ai quali si suona, si canta, si sta in allegria e ci si diverte stando assieme.

Particolarmente degna di nota è la secolare manifestazione che si rinnova ogni fine anno a Longobucco (piccolo centro dell’alta valle del Trionto, in provincia di Cosenza). È denominata «'A Focarina», termine dialettale che indica appunto un enorme fuoco acceso all'aperto, che illumina e scalda. C'è chi ritiene che abbia addirittura origini celtiche. Lì, il 31 dicembre si dà vita, infatti, a un enorme falò in piazza Sfera, davanti alla chiesa. L’occasione è propizia non solo per stare in compagnia intorno allo scoppiettio di grossi tronconi di quercia ma anche per degustare molte specialità locali, tra cui la pregevole «cuccìa», una leccornia prettamente casareccia che le brave massaie del luogo preparano - secondo un'antica ricetta - con grano bollito insaporito con miele o mosto cotto.

Anticamente, con i falò il popolo di Calabria intendeva, oltre che esprimere che la sua filiale devozione al Redentore venuto al mondo, illuminare e salutare il nuovo anno. Oggi, questo spirito di guardare ai falò, si è forse illanguidito. Pur tuttavia la gente partecipa lo stesso con tanta passione per salutare (nella notte di San Silvestro) l’anno che sta arrivando, accogliendolo con gioia. Un tempo, infatti, si pensava che grazie a questo rito, il nuovo anno si presentasse sotto buoni auspici. Sicché, numerosi cittadini si apprestavano a portare legna, fascine e sterpaglie - raccolti nelle campagne del paese - per depositarle sul sagrato della chiesa parrocchiale, luogo dove abitualmente si preparano i falò. Intorno ai ceppi sfavillanti, poi, la gente si radunava a far festa e a scambiarsi gli auguri di buon anno. E non di rado si vedeva qualcuno che accomodava qualcosa di commestibile (salsicce, patate, castagne, ecc.) nella cenere calda o qualcun altro che sbucava, non si sa da dove, con un fiasco di ottimo vino locale.

Un’altra tradizione che merita di essere segnalata (se non altro perché risale ad almeno quattrocento anni) è quella dell’«albero di Natale» che, si badi bene, ancora oggi in qualche centro della Calabria (come, ad esempio, nel mio paese: Gagliato) è rappresentato non dal comunissimo e «nordico» abete ma da un nostrano arbusto di corbezzolo colmo di bacche rosse (frutti, per giunta, commestibili) e allo stesso tempo di fiori bianchi campanulati che, assieme al verde delle foglie, formano i colori della bandiera italiana. Una forma, senza dubbio naturale e pur sempre originale, per simboleggiare la luce della vita come si faceva un tempo. Tra simboli di antica cultura e tradizionali delizie.

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© Giornalista Vincenzo Pitaro
Gazzetta del Sud - Cultura
www.vincenzopitaro.it

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