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La prolifica penna del giornalista, scrittore e autore S.I.A.E. per la parte letteraria Vincenzo Pitaro. Leggi la sua biografia, i suoi articoli culturali, la sua narrativa, le poesie dialettali, satirico-dialettali e non, le sue pubblicazioni, la rassegna stampa, ecc.

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La Calabria e l’ennesima beffa

«Il primo tocco affascina, il secondo strega». Recitava così, anni fa, lo spot di una nota marca di liquore.

Quel simpatico messaggio pubblicitario, veicolato spesso dalla tv nei «caroselli» d’un tempo, mi è tornato in mente in questi giorni pensando al «carosello» (qualcuno, ahinoi!, lo chiama «teatrino della politica») che continua a dominare la scena  nel nostro Paese, riproponendo sempre lo stesso spettacolo (più o meno simile ad una «situation comedy» di Gaspare e Zuzzurro) sul cosiddetto federalismo fiscale.

Guarda caso: sembrano tutti stregati, a destra e a sinistra. La Lega Nord, artefice del primo «tocco», dal canto suo, seguita ringhiando: «Se non passa il federalismo cade il governo e andiamo subito al voto». E Bersani, che non sta ovviamente al governo ma all’opposizione, «affascinato» risponde: «Se vi staccate da Berlusconi, il federalismo passa».

Che dire? Di «quelli della nebbia, con la bandiera verde» (come cantava Tricarico a Sanremo) si potrebbe dire tutto e di più, tranne che non siano riusciti ad inculcare abilmente il loro «federalismo fiscale» persino nella testa degli avversari. Evviva il Carroccio, evviva la politica italiana!

Ma che cos’è, in pratica, questo «benedetto» federalismo fiscale, voluto (e imposto) da Bossi, bossiani, e compagnia bella?

Se ne parla ormai da anni in Italia, al punto che intere emeroteche potrebbero raccogliere quanto finora si è detto e si è scritto sul termine «federalismo fiscale». Una parola divenuta quasi magica, addirittura taumaturgica. Nessuno, però, aveva mai spiegato con chiarezza quali progetti sottintendesse e cosa esattamente significasse. Non si era capito bene, cioè, se - in tempi di Europa unita - avrebbe dovuto servire a frantumare lo Stato o a razionalizzare il sistema italiano, facendo in modo di coinvolgere le amministrazioni locali, abbattendo le imposte e semplificando le procedure. Ora si scopre che la geniale idea del «senatùr» introduce più tasse (Imposta Comunale Unica, Imposta Secondaria, Tassa di soggiorno, ecc.) e, di conseguenza, aumenta anche la pressione fiscale, penalizzando fortemente il Sud e in particolar modo le regioni cosiddette più deboli, come ad esempio la Calabria.

Una regione, questa, consentitemi di dirlo, che dal tempo di Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini - o, chissà, forse anche da  epoca  antecedente – ha continuato via via a trasformarsi sempre di più in una vera e propria fabbrica di scontentezze, per non dire altro. Una regione spesso tradita, ingannata con le solite promesse mai mantenute, e che non ha mai stranamente alzato un dito per protestare, per dire «Ora basta! La misura è già colma». I calabresi, insomma, sembrano propensi -  e non si capisce per quale motivo - ad accettare tutto, persino i soprusi e gli abusi o quant’altro dal Nord continua ad essere propinato a iosa. Tuttavia, in questa regione vige stranamente un gran numero di persone che, forse incurante di tutto ciò, esprime ancora voglia di andare a votare («votare», per modo di dire) per eleggere i soliti candidati imposti dalle segreterie dei partiti, grazie alle liste bloccate, ad una legge elettorale definita - come tutti sappiamo - una «porcata» dal suo stesso ideatore. Di questo passo, i politici eletti non muovono foglia se Roma non voglia, ed operano secondo il volere e le imbeccate che arrivano dai proconsoli del loro partito. E intanto il Sud piange e la Calabria si dispera, subisce passivamente.

Se la Lega domina, e non solo al Nord, si bea e persevera nello strafare, privilegia tutto ciò ch’è padano, a discapito del Sud (in un paese della lombardia è stato vietato addirittura il consumo della pizza, per il semplice fatto che essa vanti origini napoletane), oddio, la colpa - se riflettiamo un attimo - è anche nostra, in parte. Perché anche noi del Sud abbiamo contribuito a rendere più forte il potere leghista, nel momento in cui, accettando quel «cavallo», proposto dal Cavaliere, non ci siamo accorti, per dirla elegantemente con il Sommo Poeta, che «le biade ... quando nascono ... hanno quasi una similitudine ne l’erba». Cosa nascondeva, infatti, quel «cavallo», quasi omerico, nella sua pancia se non la Lega di Bossi?

No, se non si rivede l’attuale legge elettorale, ogni elezione - per noi - non potrà che rivelarsi un autentico bluff.

Stando così le cose, non sarebbe affatto sbagliato se, i Calabresi, decidessero una buona volta di tranciare (letteralmente) quel cordone ombelicale che li lega ai partiti concepiti al di fuori della loro Terra, costituendo magari un Movimento autonomo. Viceversa, la Calabria non decollerà mai. Le sue sorti dipenderanno sempre da ciò che decidono i «sapientoni» del Nord.

Tornando al federalismo fiscale, che bussa insistentemente alle porte, mi torna in mente, infine, una frase pronunciata da un leghista, durante un talk show televisivo. «I soldi, i profitti ricavati dall’acquisto di un qualsiasi prodotto», ha testualmente detto, con un bisticcio di parole, «devono restare nella terra che l’ha prodotto». E allora? Se «federalismo fiscale» significa anche questo, perché mai, un calabrese o un meridionale in genere, dovrebbe acquistare un prodotto calatogli dal Nord? Come mai, i calabresi, non cominciano a tirare fuori tutto il loro orgoglio? Perché mai non dovrebbero privilegiare tutto ciò che è calabrese e continuano a rendere ancor più forte l’economia del Nord?

«Meditate!». L’imperativo, questa volta, è categorico. E i tempi sono più che maturi.

Vincenzo Pitaro

www.vincenzopitaro.it

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